Capitale garantito
Se i mercati azionari iniziano il mese di febbraio con la stessa impostazione negativa con cui hanno chiuso gennaio (che per molti listini ha rappresentato il peggiore inizio anno da oltre un quarto di secolo), gli sforzi delle banche centrali di ridurre i tassi e favorire uno scongelamento del credito da un lato e l’accresciuta avversione per il rischio dall’altro stanno creando non pochi problemi anche agli investitori più prudenti, storicamente propensi a un investimento in titoli di Stato a breve termine.
I Bot a un anno rendono ormai l’1,84% lordo (il minimo degli ultimi 30 anni), il che significa che al netto di tasse e commissioni se si riesce a spuntare un uno percento all’anno è assai. Al di sotto della scadenza annuale i rendimenti sono persino inferiori, ma anche allungandosi su scadenze più elevate (correndo così il rischio di rimanere “incastrati” in un titolo pagato relativamente caro a fronte di un interesse modesto, se tra alcuni trimestri il costo del denaro dovesse rimbalzare) non si riesce a fare molto meglio.
Secondo quanto reso noto oggi dalla Banca d’Italia, ad esempio, il Rendistato (rendimento medio dei titoli di Stato italiani a tasso fisso) relativo al mese di gennaio è risultato pari al 4,008% lordo. Ecco dunque che le reti di vendita, a loro volta reduci da un 2008 da incubo, che ha visto i promotori con i portafogli meno robusti spinti ai margini del mercato con un crollo delle commissioni percepite, e con la prospettiva di affrontare ancora uno o due anni difficili, durante i quali verosimilmente crescerà la selezione naturale e si registrerà l’espulsione dal mercato di società e promotori meno capaci, si sono rimesse a collocare prodotti a capitale garantito e polizze vita a contenuto finanziario.
Un esempio è venuto dai numeri di fine anno di Banca Generali, che nel 2008 ha visto la polizza Rialancio raccogliere 1,3 miliardi di euro netti e le gestioni a capitale protetto BG Target registrare una raccolta netta positiva per altri 320 milioni (a fronte di una raccolta netta complessiva del gruppo pari a 686 milioni, che dunque “nasconde” un flusso in uscita di quasi un miliardo di euro da prodotti quali fondi comuni e sicav). Tutto bene, dunque: società e promotori soddisfatti e clienti al sicuro grazie a tali strumenti? Non proprio.
Costruire un prodotto a “capitale garantito” non è difficile: in fondo basta investire in titoli di Stato (tanto più che se uno Stato va in default, come successe all’Argentina alcuni anni or sono, polizze e gestioni di singoli emittenti non sarebbero certamente al riparo da eventuali conseguenze) avendo l’accortezza di acquistarli sotto la pari, così da essere certi della restituzione del capitale a scadenza. La differenza tra quanto pagato per acquistare il titolo e il valore dello stesso al momento del rimborso viene di solito investita in uno strumento derivato legato a un indice o a un paniere di indici in grado di offrire una maggiorazione di rendimento rispetto al solo flusso cedolare del titolo acquistato.
Se creare un prodotto a “capitale garantito” è così semplice, non è però altrettanto certo che il risultato sarà quello ottimale, almeno per l’investitore. Prendiamo ancora ad esempio Rialancio: il risultato conseguito dai gestori del gruppo Generali è stato pari al 5,41% nel 2003, al 4,57% nel 2004, al 4,36% nel 2005, al 4,52% nel 2006 e al 5,07% nel 2007 (come indica la scheda sintetica del prodotto stesso). Al netto dei costi tuttavia il rendimento minimo riconosciuto agli assicurati dopo i primi due anni di contratto (che prevedono un lieve “sconto” di commissioni per invogliarne la sottoscrizione) è stato il seguente: 3,91%, 3,07%, 2,86%, 3,02%, 3,57%.
Risultati sempre superiori all’inflazione, certo, ma sempre (tranne il primo anno) inferiori al Rendistato medio di ciascun anno, risultato pari rispettivamente al 3,73%, 3,59%, 3,16%, 3,86% e al 4,41%. Come dire che se i sottoscrittori avessero investito in titoli di Stato avrebbero mediamente guadagnato tra il mezzo punto e il punto percentuale in più. Perché allora le banche e le assicurazioni italiane spingono tanto simili prodotti? Perché è il modo più semplice per rispondere a un’esigenza espressa dal mercato, quella di ottenere risultati apparentemente elevati a fronte di un rischio apparentemente limitato.
Esigenza che in realtà va contro ogni logica finanziaria, visto che l’unico modo di incrementare il rendimento è accettare il rischio facendosi pagare un premio via via più elevato all’aumentare del rischio stesso e dell’incertezza presente sui mercati. Ma in un mercato opaco come quello delle gestioni patrimoniali e delle polizze assicurative parlare chiaro ai clienti vorrebbe dire correre il rischio di perderli a favore di qualche concorrente meno cristallino, dunque finchè non interverrà una riforma del settore nessuno degli operatori “di propria sponte” farà un passo in questa direzione. Tanto più ora che molti di essi hanno l’alibi delle perdite pregresse e dell’indebolimento delle proprie strutture patrimoniali da opporre a chi volesse spazzar via queste rendite di posizione introducendo un qualche grado di concorrenza in un oligopolio dominato da pochi grandi gruppi.