Raffaele Mattioli:
Banchiere di sorprendente attualità
di Alfonso Scarano e Daniele Castelnuovo
pubblicato su “LA FINANZA” – ottobre 2010
Raffaele Mattioli, chi era costui? A tanto forse non arriva nemmeno un semplice lettore di giornali. Tuttavia, molti, una volta stabilito che fu un banchiere italiano del ‘900 non sapranno dire molto di più.
Una volta, nell’immaginario collettivo del mondo bancario e della finanza italiana, e non solo, la figura di Raffaele Mattioli era ben presente e molto considerata. Fu definito da un giornale statunitense il più grande banchiere italiano dopo Lorenzo de Medici. Perfino quando negli anni ’80 lasciò la guida di Comit, il ricordo della sua opera e dei suoi enciclopedici interessi culturali e editoriali, spiccava nel panorama bancario e imprenditoriale, quasi come una leggenda. Nel tempo, una sottile polvere di oblio ha velato il ricordo del banchiere e pochi sono effettivamente consapevoli della sua opera. Chi l’ha conosciuto, conserva il ricordo di un’antica e ben diversa epoca di fare l’attività bancaria. Le nuove generazioni non hanno avuto la fortuna di ricevere almeno testimonianze indirette e tanto meno passaggi di testimone della cultura bancaria che un tempo vi era. Fare banca, per Raffaele Mattioli e i suoi amici-collaboratori aveva preso un senso professionale specifico diventando un tema epico oltre che etico, ben visibile nell’opera di quei funzionari di Comit che, rispettati ovunque, giravano l’Italia in percorsi di formazione sul campo,’sul territorio’ come si direbbe oggi.
Sosteniamo che l’averlo dimenticato non fa onore alla storia e tanto meno alla intelligenza pratica delle necessità odierne. A ben rileggere, c’è molto di originale e profondamente attuale nelle carte di Mattioli, di Malagodi, di Gerbi e delle numerose e straordinarie figure che hanno contribuito a salvare dalla bancarotta la Comit negli anni ’30 e a svilupparla in banca commerciale vera, coniando una specifica cultura e filosofia bancaria. Tali sono stati per loro la cultura, il pensiero critico-pratico, intelligente e onesto, sorretti da forti tensioni culturali, che suonano straordinariamente moderni e utili per le riflessioni dell’attualità.
Questo pensiero e questa cultura bancaria non furono solo della Banca Commerciale ma attraversavano l’intero settore bancario italiano che della scuola Comit si faceva vanto. Formando i propri funzionari e non ostacolando che andassero a lavorare in altre banche ben si sapeva, in modo conscio o inconscio quanto grande era la riconoscenza e l’affezione degli ex-dipendenti. Sparpagliati in altri lidi, portavano l’immagine della Comit come di un’ammiraglia con tanti buoni contatti.
Troviamo nel pensiero di Mattioli e dei suoi ‘ragazzi’, come amava indicarli, l’approccio pragmatico ai problemi tipici del mondo della banca. Certo, ma a loro non erano per niente estranee le questioni che attanagliano l’uomo, sviluppate sul piano di un’indomita curiosità e supportate dal grande telaio del pensiero della cultura occidentale, del vivere sociale e dello sviluppo di una e di tutte le nazioni. Come dimenticare l’attenzione geo-politica mondiale che Mattioli aveva e seminava ?
Non tutti sanno che, ad esempio per avere notizie fresche e di prima mano dall’oriente teneva come consulente a libro della Comit un coraggioso, curiosissimo e geniale giornalista come Tiziano Terzani. Sulle questioni del mondo arabo erano famosi i suoi confronti con un uomo pratico ed esperto di quelle nazioni come Enrico Mattei. E, così via enumerando: intorno alle questioni dei lavoratori e del mondo del lavoro dialogava con un uomo di cultura e di passione politica come Palmiro Togliatti, sui temi della cultura interloquiva con l’amico Benedetto Croce, a sua volta filosofo non distaccato ma anzi immerso nel mondo reale. L’elenco delle frequentazioni non si può riassumere in poche righe, ma basti comunque segnalare che la casa Mattioli era stata frequentata dei pensieri illustri e dalle intelligenze più vive e autorevoli del suo tempo.
Mattioli, per quasi mezzo secolo è stato un punto di riferimento per tanti intellettuali e non solo il munifico capo della Comit. Leggere oggi gli scritti di Mattioli è un viaggio nella società del suo tempo, interessantissima e gratificate e anche una lezione di formidabile attualità e di utile ammonimento.
Ad esempio, leggiamo come testimonia la ricorrenza del 75° anno dalla fondazione della Comit, durante l’assemblea straordinaria del 1° dicembre 1969:
[…] “ … guardiamo ai fatti, a quel che è successo e come è successo, e constatiamo che nelle buone come nelle avverse fortune della Storia Italiana contemporanea la nostra banca si è mantenuta indefettibilmente al servizio di tutta l’economia nazionale, del suo sviluppo e del suo sostegno, in tutti i rami, in tutte le regioni, ed ha tratto nuove energie dal rafforzamento delle capacità produttive e commerciali del Paese. Non si può pensare di scrivere la storia economica di questi tre quarti di secolo senza riconoscere, ad ogni piè sospinto, la presenza lo stimolo e l’impulsione della Comit. Nella lunga prospettiva di questo periodo, anche gli sbagli, gli scacchi, i sommovimenti, le mutilazioni, trovano una loro collocazione e, se non sempre una giustificazione, un costante crisma di razionalità. Il braccio economico dello Stato, l’IRI, è nato come la proiezione felicemente realizzata di una politica che ebbe nella Comit l’iniziatrice e la protagonista. Tutti quelli che hanno dato il meglio di sé alla Comit possono perciò, senza nessun ossequio alla mistica dell’azienda, senza nessuna idealizzazione di quello che dopotutto non è che un “affare”, inteso dunque al profitto e servo di Mammona, essere fieri del risultato dei loro sforzi, ed insieme umili alla vigile coscienza di non essere stati delle anonime rotelle di un grosso congegno” e dopo alcune parole di ossequio a Otto Joel e Giuseppe Toeplitz, fondatori della Comit, ricordava il loro testamento spirituale che …. “raccomandava di mantenersi fedeli al principio che la Banca attingesse forza e prosperità nel dar forza e prosperità al Paese”.
Un principio – quello che “….la Banca attingesse forza e prosperità nel dar forza e prosperità al Paese” – in questo momento molto citato ma, nei fatti, sicuramente fuori moda.
Pure tralasciando le curiose sottolineature nello stile retorico di un tempo, possiamo riconoscere il tentativo di offrire la visione della finanza come utile sintesi tra banca e sviluppo sostenibile del paese, riconoscendo quanto sia una ricerca non futile anche ora, all’indomani della crisi finanziaria e in pieno allarme economico e occupazionale. E’ emerso da plurali voci anche autorevoli che, per essere giovevole, l’attività della banca non può indefinitamente alimentarsi dello squilibrio nei rapporti negoziali e nelle conoscenze tecniche-finanziarie verso la clientela. Le banche di oggi si sono, ad esempio, grandemente impoverite o hanno anche completamente perso quelle conoscenze e capacità tecniche industriali e settoriali che una volta invece possedevano. Ad esempio non era né insolito né una deviante sciocchezza che le banche – certamente quelle di mediocredito – avessero tra i loro ranghi ingegneri, chimici – tecnici insomma – che avevano le competenze tecniche di entrare nel merito dei progetti e degli investimenti fino ai dettagli della concezione degli impianti.
Talvolta sembra che ci si sia dimenticati che il mestiere della banca richiede la conoscenza non solo delle aziende come numeri economici, ma anche personale dei clienti, se si vuole far girare bene e fluidamente il denaro.
Mattioli insieme con un importante filone di approccio teorico-pratico ritiene che le disponibilità bancarie, la sua liquidità, sia un qualcosa che abbia in se una sorta di potenza fluida e motrice:
[…] ‘liquidità: termine classico da non confondere con una inerte disponibilità di denaro ferma lì per rimborsare i depositanti [ma] riconosciuta invece in quell’attiva circolazione dei fidi concessi che assicura il continuo rinnovellarsi della possibilità di far credito, di lavorare’ […] (Mattioli, 1961 p. 5)
In effetti, per lui gli averi liquidi, se fermi e tenuti stagnanti, sono lungi dal costituire sempre un’utile riserva e piuttosto sono da considerarsi semplicemente inoperosi e quasi destinati a imputridire.
Tra tante altre questioni, in Mattioli ha un posto di grande interesse, e di grande attualità, la fase di creazione, messa a punto e portata in esercizio della gestione dei crediti, quello che si potrebbe definire il ‘ motore industriale ‘ della Comit: conoscere bene il business ma anche le imprese.
A questo scopo, con i suoi collaboratori studiò uno strumento pionieristico oltre che molto pratico e utile, il “modello Comit 253”. E’ questo un documento composito e complesso per la raccolta d’informazioni quantitative e qualitative, di dati di bilancio ed annotazioni dei funzionari. Infatti nel 235 si raccoglievano le quotidiane e dettagliate notizie su aziende e titolari, come testimonianze giudiziose e sensibili originate nella rete dei funzionari di filiale. A ragione si fa risalire a Malagodi, la geniale idea del modello 253, ma esso era solo l’inizio della procedura di concessione del credito non limitata ad una burocratica redazione ma che veniva arricchita anche dal contributo di altri servizi in particolare gli studi e la segreteria. La creazione di una complessa cultura aziendale era fatta, certo, d’impegno lavorativo e documentazione ma anche dell’intelligenza di uomini capaci e stimolati dall’azienda in un’ispirazione comune, in un’opera concreta e rapporti diretti e senza orpelli.
Rivelatrice a questo proposito appare la lettura di questi documenti e procedure anche nel parallelo che si offre all’osservatore moderno con la struttura logica e organizzativa imposta da Basilea 2 e, ora, di Basilea 3.
Ciò si evidenzia dalla comparazione tra modello 253 e Basilea 2. Infatti, basta notare che alla base dell’impianto di Basilea 2 c’è un’ipotesi implicita – aprioristica e data per certa e verificata, ma in realtà non lo è – ovvero, che si possa sempre valutare analiticamente – quantitativamente – il merito di credito d’impresa in maniera affidabile. E non si sfugge alla considerazione che tutto l’impianto di Basilea 2 alla fine è quella costruzione assai ponderosa che ha consentito la costruzione del mercato dei crediti cartoralizzati. La conseguenza è stata, in breve, la strutturazione di varie genetiche di prodotti finanziari che hanno come sottostante il credito, e che sono stati standardizzati e dotati di rating che hanno avuto la possibilità di essere liberamente scambiati sui mercati finanziari internazionali e, infine, essere classati nei portafogli di tantissimi investitori del mondo intero.
Il paragone è un pochino avvilente. Da una parte (modello 253) c’è la creazione di un sistema integrato, documentato e gestito dalla capacità professionale e tecnica dei funzionari bancari per gestire il rischio nella pancia, capace, di una banca intelligente, accorta ed in grado di far corrispondere attività e passività con un rischio man mano valutato e tenuto sotto continua osservazione. Dall’altra (Basilea 2), si permette la costruzione di una catena di montaggio di prodotti standardizzati, e poco chiari nel loro indistinto ed indistinguibile sottostante che, con l’acqusito del prodotto finanziario, sostanzialmente trasferisce tutto il rischio a ignari investitori. Questi riescono ad analizzare poco o nulla della originale qualità del sottostante. Quasi come se si potesse ammettere la vendita di qualunque pagnotta e pasticcino o torta, indipendentemente dalle condizioni igieniche della qualità della farina utilizzata. I dolcetti finanziari fatti con queste avariate farine si sono solo dopo rivelati amarissimi e indigesti.
Il parallelo invita a chiedersi e ragionare sulla sostenibilità nell’attuale modello di crescita dei mercati come crescita dei mercati dei prodotti basati sul debito e della indotta della finanza derivata. E se non sia preferibile pensare nuovamente a livello politico e sociale alla utilità di una banca commerciale che fa bene il suo lavoro, adottando la migliore allocazione del risparmio e capace tecnicamente di gestire direttamente il rischio?
Dopotutto, se una banca guadagna molto solo dalla intermediazione e può con facilità e sostanziale impunità trasferire ai clienti tutto il rischio dei suoi prodotti si darà mai la pena di saperlo valutare appieno e in maniera sostenibile? Non potendo non sapere che così s’incoraggeranno i dirigenti a porsi un semplice e redditizio obiettivo trimestrale di un Roe a due cifre, lasciando, di fatto, che il cerino acceso possa passare ad altri ?
A parte ciò è comunque affascinante e interessantissimo il percorso logico, professionale e storico con cui Raffaele Mattioli ha prima salvato la Comit dalla bancarotta e poi posto le premesse di una banca che fa il mestiere della vera banca e non dello speculatore finanziario.
E dunque le considerazioni tecniche sulla velocità di rotazione del credito, quale elemento tipico e sostanziale nella capacità industriale della banca che fa il vero mestiere bancario:
[…] Considerando che chi detiene moneta ne accumula o se ne disfa più o meno velocemente in vista di un suo cambiamento di valore, il cambio di passo della ‘velocità di rotazione dei crediti’ in relazione allo ‘indice generale di rotazione’ [1] del credito è il segnale – forse il più importante – di un cambiamento dello stato del mondo. In questo senso essa contiene indicazioni simili a quelle che si potrebbero ottenere dalla osservazione della variazione di un tasso di interesse reale settoriale in rapporto ad un tasso di interesse reale medio, se tali grandezze potessero essere identificate, determinate e misurate con qualche precisione.[2] In termini di esempio concreto, e limitando il discorso al solo primo indicatore –la velocità di rotazione dei crediti – un significativo aumento delle cambiali scontate da quella tale ditta artigiana nel corso dell’ultimo mese mentre, mettiamo, il totale dei suoi movimenti di conto corrente è rimasto circa uguale negli ultimi sei mesi, dice qualcosa di significativo riguardo alla sua situazione economico patrimoniale e di potenzialmente paradigmatico per l’intero sistema economico.
Alla economia e sulla politica economica, Mattioli e i suoi non poterono non dare un grande contributo ed una visione del mondo, spesso più lucida e lungimirante di altri.
Valga a questo proposito la citazione di un passaggio scritto da Mattioli giovane redattore del Bolletino ABI nella premonizione del passaggio dal pensiero classico a quello Keynesiano (Mattioli, R. (1920, Marzo) p.83).
‘[…] il cui [della lira N.d.R.] valore rimarrà ancora tanto depresso fino a che le esigenze della Finanza dello Stato non permetteranno una vigorosa politica di deflazione e l’economia nazionale non sarà in grado di riadeguarsi, nelle sue svariate forme, ad una sana circolazione, specialmente in virtù di una più larga ed intensa produzione […].
Il realismo mattioliano
Tutti sanno che, accanto al Mattioli intellettuale originale, sognatore e talvolta perfino anche un poco futurista, tutta la sua opera fu orientata a un solido realismo.
A questo proposito ci piace ricordare il bon mot, ripreso dallo stesso Hegel, di Mattioli secondo cui ‘[se] tutto ciò che è reale è razionale [ma] non è certamente razionale discutere di cose non reali’ e abbandonare ogni teoria dal carattere incerto e necessariamente mal definito.
Realista sulla scarsa significatività dei ‘dati di mercato’ dette per scontato che i tassi d’interesse empiricamente rilevati dagli uffici fossero un indicatore creditizio preferibile al teorico tasso ufficiale di sconto. Non si pronunciò mai su assetti e riforme del sistema monetario internazionale prendendo semplicemente atto del ruolo del Dollaro come moneta di riserva e della Sterlina e Franco Svizzero come valute di commercio e tesaurizzazione. Fu molto scettico sui grandi disegni della politica economica e industriale e quasi schernì i tentativi di programmazione economica degli anni 1970, ben conoscendo la struttura del potere familiare nell’economia italiana. Mattioli fu fieramente nemico di ogni tentativo dirigista in economia convinto che la persuasione esercitata sugli imprenditori fosse sufficiente a indirizzarli verso le migliori scelte d’investimento e gestione. Certo è che in ogni caso detestava la miope ingordigia degli imprenditori ignoranti cui notoriamente attribuiva una grande responsabilità nella crisi della Banca Commerciale alla fine degli anni 1920. Da laico e antifascista non rifiutò di assumersi la responsabilità di agire da banchiere nel quadro né della dottrina sociale cattolica né del corporativismo fascista. Soprattutto allergico ai luoghi comuni e alla facile retorica, la sua insofferenza per le frasi fatte lo spinse a quasi schernire il vuoto terzomondismo in voga tra i politici; pur essendo ben consapevole della responsabilità che incombe sulle nazioni ricche nell’aiutare quelle meno sviluppate.
In conclusione, consigliamo di rileggere e riscoprire la figura e gli scritti di Raffaele Mattioli e dei suoi collaboratori magari consultando il ricco archivio Intesa – Sanpaolo e le opere conservate alla Fondazione a lui intitolata. Un’attività fascinosa e appassionante che, certamente, non è priva di pratica utilità anche e sopratutto nei nostri giorni.
[1] R. A. sul 1957 p.164
[2] Si veda R.A. sul 1959 p. 209