Scalamara

15 Marzo 2011 di Manuela Tagliani
Robin Hood
Categoria: Arte e Cultura / Sherweb | Commenta

Scalamara è il nome della strada dove abitava la zia che lo prese in casa ma è anche la metafora della di un figlio di N.N., cresciuto fra violenza e povertà, in fuga dall’isola per cercare la madre che l’ha abbandonato. Raccoglitore di olive, strillone, gelataio, cameriere, uomo delle pulizie: una vita in cui c’è un po’ di tutto, anche il terremoto.

di Costantino Congiu Scalamara

1936-1995

La prima elementare la frequentai a casa di mia nonna e con la zia incominciai la seconda classe. I figli di mia zia erano 4 donne, 3 già signorine e l’altra più piccola, e gli altri erano maschi ed uno di questi aveva qualche mese meno di me; avevamo quasi la stessa età e andavamo a scuola insieme anche se in diverse aule. La mia maestra era quella della prima elementare e io ero felicissimo, in lei rispecchiavo sempre il viso di mia nonna, era di una bontà infinita. Con me aveva una certa particolarità, ricordo che mi aiutava molto nei compiti e quando uscivamo dalla scuola in fila per due a me mi metteva sempre in ultima fila e quando a uno alla volta si usciva dal portone della scuola io ero sempre l’ultimo, a questo punto lei mi baciava e mi dava le caramelle, ecco perchè mi metteva in ultima fila perchè non voleva far vedere ai miei compagni che per me aveva una certa particolarità. Ricordo ancora che noi avevamo diritto alla reffezione, perà a squadre e a giorni alterni, ma lei a me mi mandava tutti i giorni e questo fu riferito al direttore e così per me finì quella prefferenza, ma mia zia intanto ebbe la tessera di povertà poichè risultavamo famiglia numerosa e così avevo il diritto a mangiare tutti i giorni. Finita la seconda elementare fui promosso in terza e ebbi la possibilità, sempre attraverso quella carta di povertà, di andare periodicamente nelle colonie sia marine che montane.

Intanto la condizione famigliare con mia zia andava precipitando per cause economiche. Mio zio dava dieci lire al giorno, ricordo ancora quelle dieci lire di colore biancoazzurro con inciso la figura di Vittorio Emanuele terzo e la regina e tutti i giorni erano littigi. La casa dove noi abitavamo era composta di due stanze e cucina a carbone; in una stanza dormiva zio e zia con i due più piccoli e nell’altra stanza c’erano due lettini uniti insieme e lì si dormiva a mucchio. L’abitatto era di due piani e noi abitavamo al secondo piano e nella cucina c’era una specie di bottola che portava sul tetto, un tetto che era tutto fatto di tegole rosse e dove ogni primavera era pieno di nidi di rondini.

Intanto la nostra situazione veniva sempre peggiorando a causa della nostra povertà; mia madre periodicamente mandava dei soldi, ricordo che a casa arrivava una lettera tutta sigillata di ceralacca e per noi era una fortuna perchè finalmente si potteva mangiare. E ancora periodicamente si andava al breffetrofio per ritirare quel sussidio che passavano per me e chi andava a ritirare questi soldi era la cugina maggiore ma periodicamente quell’istituto chiedeva che mi dovevano portare là per un controllo e così io seppi che signifficava il breffetrofio. Ricordo che diverse volte, quando si andava là, mia cugina si fermava davanti a un bel negozio di gioielleria invitandomi a guardare quella vetrina: era un grande negozio e ricordo ancora il nome dell’insegna; comunque, come dicevo, ogni volta che ci trovavamo a passare in quella strada mia cigina si fermava con me e un giorno mi disse: “Vedi quello dietro quel banco? É tuo padre” e mi incitava ad entrare, ma io ero apatico ero inebriato da quella vetrina piena di gioie e così andavamo via ma ogni qualvolta che facevamo quella strada mia cugina si fermava a guardare quella vetrina, e nell’istesso tempo guardava me, ma non diceva più niente.

Ormai, come dicevo, la situazione peggiorava sempre più; ricordo che quando mia zia era incinta dell’ultimo figlio venne l’ufficiale giudiziario per cacciarci via poichè non si pagava il pigione non so da quanti mesi ma mia zia si oppose avvalendosi della sua gravidanza e così finì lì. Questa non era la prima volta che succedeva ma mi pare che era o la quindicesima o la ventesima volta che mia zia aveva cambiato abitazione lasciando ogni volta da pagare fino a sei mesi di pigione.

Intanto mentre io frequentavo la terza elementare cambiai maestra poichè la maestra che ci aveva guidato dalla prima elementare si ammalò. Dicevo della nuova maestra: era una donna alta robusta e si presentò molto gioviale ma purtroppo non era così; aveva un viso dall’espressione cattivo, eveva sempre una bacchetta in mano pronta a darcela sulle mani. Ricordo un giorno, mentre sottovoce parlavo con il mio compagno di banco, si accorse e mi venne vicino dicendomi che cosa avevo da dire e io risposi che non stavo dicendo niente; io naturalmente mentivo e lei a questo punto mi ordinò di mettere le mani sul banco, io tremante misi le mani sul banco, lei alzò la bacchetta ma, mentre lei abbassava la bacchetta, io ritirai le mani da sopra il banco, al che si infuriò talmente che rialzò quella bacchetta e me la sbattè in testa. Arrivai a casa e piangente raccontai a mia zia dell’accaduto, questa mi tastò la testa e vide che c’era un bel bernoccolo al che il giorno successivo lei mi accompagnò a scuola per fare le dimostranze al direttore. Ora, mentre tutti in fila entravamo a scuola, mia zia andò in direzione e dopo poco venne in aula una supplente dicendo che sia io che la maestra dovevamo andare in direzione, e così fù. Il direttore, presente anche mia zia, fece le sue dimostranze alla maestra avendomi prima toccato il bernoccolo che avevo in testa, poi mi fu ordinato dal direttore di andare in classe, poi doppo ritornò anche la maestra. Io avevo una grande paura, e infatti la maestra mi guardava sempre con l’espressione di occhio, cercava sempre di evitarmi anche nei propri compiti, non mi chiamava più spesso alla lavagna; comunque avevo capito che era insopportabile continuare in quella scuola.

Intanto io chiesi a mia zia che cosa aveva detto il direttore in mia assenza dalla direzione e mia zia mi disse che aveva avuto una bella lavata di testa e che era stata ammonita che se fosse successo un’altra volta sarebbe stata spedita in una scuola in un paesino vicino.

Intanto la mia situazione o la nostra situazione peggiorava sempre più, io non andavo più a scuola, a casa di mia zia era il solito inferno. Dimenticavo di dire che, oltre alla fame il freddo e gli stenti, eravamo pieni di cimici pidocchi pulci scarafaggi e – estate – anche zanzare. La notte era una tortura, tutti noi coricati in quel letto, anzi dirò che la sera staccavamo le due reti e in mezzo mettevamo una sedia a capo e l’altra a piedi e lì appoggiavamo le due tavole che stavano sotto i materassi e sulle tavole mettevamo degli stracci qualche coperta e i nostri stessi vestiti e così ci si coricava. Nelle due retti invece c’erano due materassini di crine vegetale che a volte facevamo a turno oppure facevamo la conta con le ditta a chi doveva dormire là oppure qua. Ma questo non cambiava niente, la notte ci trovavamo uno addosso all’altro e chi dava calci di qua e chi dava calci di là, ognuno andava trovando lo spazio per stare meglio, ma la cosa che ci tormentava di più erano quelle maledette cimici e pidocchi, la notte non si poteva dormire perchè era un continuo grattare, la mattina ci alzavamo pieni di bolle bianche e con alone rosso; durante la notte capitava la cimice, la schiacciavamo con le dita ed allora si formava una puzza indescrivibile, invece quando schiacciavamo i pidocchi non c’era puzza.

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