Coprifuoco per i gatti

2 Luglio 2012 di Manuela Tagliani
Lady Marian
Categoria: Arte e Cultura | Commenta

In tempo di guerra il cibo diventa danaro, il sale è più prezioso dell’oro e la vita dei gatti non vale un soldo bucato. Così nel racconto di una giovanissima staffetta partigiana della Val d’Ossola: “Per i gatti è stato istituito un rigidissimo coprifuoco, per loro la porta è sempre chiusa, fuori la loro vita non varrebbe un soldo bucato. Ora le cose si sovvertono, sono i contadini a stare meno peggio; loro hanno l’orto…”

di Ester Maimeri

 

A casa si apre l’armadio delle scorte per i “tempi neri”. I tempi neri sono arrivati e guardiamo sconsolati quanto poco abbiamo. Siamo in quattro più la Lina e due gatti. Per fortuna le altre due donne vengono solo mezza giornata e mangiano a casa loro. Si stabilisce un rigido razionamento e io comincio ad avere fame. Ma perchè non hanno messo via più roba, come tanti altri? Accidenti! Qualche giorno dopo constatiamo di essere fortunati. Chi aveva grosse scorte è stato scoperto, tutti sono stati visitati e privati di quanto avevano accantonato, così ora stanno peggio di noi.

Per i gatti è stato istituito un rigidissimo coprifuoco, per loro la porta è sempre chiusa, fuori la loro vita non varrebbe un soldo bucato.

Ora le cose si sovvertono, sono i contadini a stare meno peggio; loro hanno l’orto che ancora dà qualche cosa, hanno le galline che tengono ben nascoste, nessuno li controlla. Noi abbiamo le mani legate, mille occhi sorvegliano cosa fanno, cosa mangiano “i sciuri”. Lina va tutti i giorni a trovare i suoi (e certo a mangiare) e mentre è via mamma tira fuori un piccolo extra che ci affrettiamo a mangiare, ma è sempre poco. A volte sono proprio Lina o Teresa che ci aiutano, ogni tanto arrivano con qualche cosa: un paio d’uova, quattro o cinque carote, due patate, una volta addirittura mezzo pollo.

E’ una festa quando viene portato in tavola ma, non appena Lina esce dalla sala da pranzo, mamma bofonchia:

“E’ oro, attenti ai denti” – chissà quanto lo avrà pagato.

Come sempre mamma va una volta alla settimana a trovare le suore dell’asilo, ma ora va solo forse per abitudine, forse per scambiare quattro chiacchiere. Va a mani vuote, non più biscottini, dolcetti e caramelle. Quando torna è triste, sconsolata nel vedere quei faccini che si rivolgono a lei nell’attesa di avere quello che non può più dare.

Ieri è tornata con aria misteriosa ed appena siamo noi soli tira fuori dalla borsetta due minuscoli panini. PANE! Glieli hanno regalati le suore che avevano ricevuto un po’ di farina per i bambini. Grazie suore! Ce li dividiamo, mezzo a testa, un piccolo boccone ma è pane. Inumidiamo le dita e con cura raccogliamo ogni minuta briciola e le assaporiamo come se fosse il cibo più prelibato che ci possa essere.

Difatti lo è.

A Domo stanno meglio, la Svizzera è a due passi e qualche cosa si riesce a far passare ed anche noi ogni tanto riusciamo a procurarci degli extra fino a che la frontiera viene definitivamente chiusa. Non si può passare.

In treno mentre vado a Domodossola, non si sente parlare che di cibo. Vicino a me un uomo si dispera: “Avevamo fatto un po’ di pane con l’ultima farina rimasta e ho picchiato mio figlio perché l’ho sorpreso con in mano un pezzettino. Capite? Ho picchiato mio figlio per un tozzo di pane!”

Non riesce a darsi pace e continua a ripetere che ha picchiato il suo bambino per un pezzetto di pane.

La Svizzera ha chiuso la frontiera ma promette aiuti. Difatti accoglierà i bambini al di sotto dei quattordici anni e manderà patate per la popolazione. Le attendiamo con ansia; ogni giorno faccio la posta con altri dall’ortolano che dovrebbe distribuirle, ma la bottega resta invariabilmente chiusa.

Finalmente eccole, un chilo a testa. Sono patate enormi e ne porto a casa ben quattro. Sono grosse, non sanno di niente ma bollite con un pizzico di sale sono… “squisite”.

La distribuzione doveva avvenire due volte alla settimana, ma io ne ricordo solo due o tre in tutto. Non le avevano mandate? Si erano perse per strada? Boh!!

Partiamo all’alba; nel sacco una scatoletta ed un paio di borracce che spero di riportare piene di latte. In tasca metto i soldi, sono tanti, quasi mille lire.

“Stai attenta, non perderli. Compra tutto quello che puoi. Sta attenta, mi raccomando, mi fido di te ma sta attenta, sii prudente”

Non finisce mai di farmi raccomandazioni. Poi mi infila nello zaino un sacchetto di sale.

“Vedrai che con questo otterrai più che con i soldi”.

Già il sale è diventato più prezioso dell’oro.

Ci accoglie un montanaro piuttosto scorbutico che però ci fa accomodare nella sua baita e ci offre tre ciotole di latte appena munto. E’ nettare, sa di fiori dell’alpe e non capisco come finora lo abbia sempre rifiutato se non condito con tanto cacao.

Parliamo, chiediamo, ma quello risponde sempre che non ha niente, fa finta di non capire.

Parlo in dialetto, dico che abbiamo i soldi, che possiamo pagare. Mi guarda, si ammorbidisce un po’, parla solo con me che non sono una de quei de fora.

Si, un po’ di latte ce lo può dare. E burro? E formaggio? Non ne ha. So che non è vero, mica se lo può bere tutto lui il latte di tante mucche.

E’ irremovibile. Di colpo mi viene in mente il sacchetto di sale, lo tiro fuori dallo zaino e glielo metto davanti. La sua faccia cambia di colpo, lo guarda con avidità.

Contrattiamo: un pane di burro ed un pezzo di formaggio. – No tre pani di burro più tre bei pezzi di formaggio più, naturalmente, il latte. –

E’ un tira e molla continuo, faccio per riprendermi il sacchetto ma lui lo afferra; va bene, ci darà formaggio, burro e latte ma vuole anche i soldi.

Soddisfatti paghiamo profumatamente e prendiamo la via del ritorno con i viveri desiderati.

 

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