La bicicletta
Negli anni Cinquanta, una ragazzina si impegna tenacemente per realizzare il suo grande desiderio di avere una bicicletta. Lavora duramente, con i suoi genitori, a fare mattoni e, dopo molti sacrifici il sogno si realizza. “Quando tornammo a casa mio padre andò a comprarmi la bicicletta. Era bellissima: il telaio di un bell’azzurro cobalto, la retina del parafango grigio chiaro, il manubrio sportivo. Su quella bicicletta mi sentivo la più ricca del mondo!”
di Iria Parlanti
Vorrei raccontare ai ragazzi di oggi, ai quali non manca fortunatamente nulla, i miei crucci di ragazzina per arrivare ad avere una bicicletta ed anche la grande soddisfazione quando la ricevetti in regalo.
Credo di non aver avuto gioia più grande in tutta la mia vita, neppure quando abbiamo comprato la prima automobile, nonostante pensassi, nella mia giovinezza, che soltanto i signori potevano essere in grado di comprarsi la macchina. Questo è avvenuto dopo sposata: avevo già i ragazzi grandicelli, lavoravamo sia io che mio marito, insomma i tempi erano cambiati…
Sono nata nel 1935, erano anni di miseria un po’ per tutti ed anche in casa mia c’era un clima di ristrettezze.
Da piccola, quindi, non potevano certo comprarmi una biciclettina, i soldi si spendevano per le cose necessarie. In casa, prima della guerra, ne avevamo due, una da uomo e una da donna, ma i tedeschi ce le portarono via. Ricordo ancora quando i soldati la strapparono di mano a mia madre e il tira e molla che lei fece. Poi naturalmente dovette cedere.
Rientrati dal passaggio della guerra non avevamo i soldi per comprarla. I miei zii, invece, erano riusciti a nascondere una delle loro biciclette così mia cugina, girando intorno casa con qualche capitombolo era riuscita ad imparare ad andare in bicicletta.
Avevo imparato anch’io e, quando le chiedevo di farmi fare un giro, me la prestava volentieri perché eravamo anche buone amiche, ma sua madre, che stava dietro le persiane, appena mi vedeva prendere la bicicletta, mi sgridava e mi faceva scendere perché la bici era di sua figlia e non mia.
Intanto gli anni di miseria continuavano e in casa mia comprarono una bicicletta usata da uomo per mio padre e mio fratello che a quel tempo andava a Pontedera a lavorare in un negozio di parrucchiere per uomo.
I miei genitori lavoravano come mattonai, un lavoro stagionale che li costringeva ad andare in Piemonte presso una fornace di laterizi che produceva mattoni e tegole, naturalmente fatti a mano.
Era un mestiere veramente pesante che per fortuna è andato scomparendo: si lavorava dal mattino, prima che sorgesse il sole fino alla sera, quando era ormai buio. Il lavoro era faticosissimo, a cottimo e durava per circa cinque mesi, nel periodo estivo.
Anche i ragazzi piccoli davano il loro contributo secondo le proprie forze e questo non perché i genitori volessero sfruttare il lavoro dei figli, ma perché durante l’inverno difficilmente riuscivano a trovare qualche lavoro e in quei pochi mesi dovevano mettere da parte quanto serviva per sopravvivere fino alla successiva primavera.
Ed ora ritorniamo alla bicicletta.
Sono arrivata all’età di quindici anni senza che in casa ci fosse stata una bicicletta da donna. L’anno precedente le mie amiche avevano avuto la possibilità di comprarsene una nuova e tutte le domeniche andavano un po’ in giro con quella oppure potevano andare al cinema a Pontedera, spostandosi da La Rotta dove abitavamo in quel periodo, ed io che ero a piedi rimanevo sola a casa.
Immaginatevi quanto era grande il mio desiderio per la bicicletta!
Quando a primavera partimmo per andare a lavorare in Piemonte, cominciai a chiedere a mio padre di comprarmela a settembre, finita la stagione dei mattoni. Lui non mi disse mai di no, però metteva sempre davanti tutte le difficoltà: “Speriamo di avere la salute per lavorare. Speriamo che il tempo sia buono…”.
Lavoravamo all’aperto e quando pioveva, oltre a causare disastri, stavamo anche fermi…
“Speriamo di guadagnare e poi vedremo. Se, arrivati a fine stagione avremo risparmiato trecentomila lire allora ti comprerò la bicicletta che desideri tanto”.
Potete ben immaginare con quanta lena lavoravo! Tutte le mattine scrutavo il cielo per vedere se era nuvoloso e pregavo perché non piovesse.
Alla fine di agosto raggiungemmo l’obiettivo: eravamo riusciti a risparmiare le trecentomila lire! Ero contenta matta!
L’euforia durò poco perché quell’estate, come era successo l’anno prima, anche mio fratello, che di solito restava a casa a fare il barbiere, era venuto a fare i mattoni con noi perché, non essendo titolare di barbieria, guadagnava poco e desiderava risparmiare il necessario per sposarsi.
Naturalmente mio fratello mi disse: “La bicicletta te la comprerai l’anno prossimo! Quest’anno i soldi servono a me per sposarmi”.
Dal suo punto di vista aveva pienamente ragione, ma l’avevo anch’io che avevo lavorato con tutte le mie forze con la speranza di una bicicletta tutta mia e il pensiero di un altro inverno sola a casa mi faceva piangere disperata.
Mio padre mi disse allora: “Se durante questi quindici giorni di settembre non piove mai. ti prometto che te la compro”.
A settembre è quasi impossibile che non piova mai, specialmente in Piemonte. Tutte le mattine all’alba, quando mi alzavo, guardavo il cielo che era quasi sempre velato da una nebbiolina ovattata che somigliava tanto alle nubi. Io piangevo e pregavo la Madonna perché quelle non fossero nubi e perché non piovesse. Quando il sole si alzava e rischiarava il cielo, io naturalmente lavoravo fino all’esaurimento delle mie forze.
Ebbi finalmente anche questa fortuna: finché rimanemmo in Piemonte non piovve mai!
Quando tornammo a casa mio padre andò a comprarmi la bicicletta. Era bellissima: il telaio di un bell’azzurro cobalto, la retina del parafango grigio chiaro, il manubrio sportivo. Su quella bicicletta mi sentivo la più ricca del mondo!
Ma non è ancora finita!
Dopo quindici giorni stavo attraversando la strada con la bicicletta a mano quando vidi avvicinarsi la polizia stradale in moto. Viaggiavano sempre in due ed uno di loro, forse per fare il gradasso. cominciò ad andare a zig zag, facendo finta di venirmi addosso. Purtroppo, però, non lo fece solo per finta!
Con la moto il poliziotto urtò violentemente la ruota della bici. Immaginatevi quando vidi il cerchione della ruota posteriore rotto! Non ci vidi più! La rabbia e la disperazione mi fecero dimenticare la mia timidezza, andai incontro al poliziotto che sembravo una iena! La prima cosa che gli dissi fu: “Lei lo ha fatto apposta, ora me la ripaga!”.
Nel 1951 erano tempi duri, la polizia non era quella di oggi.
Davanti al luogo dell’incidente c’era un bar dove sostavano diversi uomini, videro e sapevano che avevo ragione, ma nessuno si mosse per venire a difendermi, solo un ragazzo ebbe il coraggio di farlo e loro lo minacciarono di portarlo in caserma.
Con modi bruschi l’avevano già fatto salire sulla moto, ma per fortuna intervenne sua sorella che, piangendo e pregando, riuscì a convincerli a lasciarlo andare evitandogli così una brutta avventura.
I poliziotti accettarono di pagare la sostituzione della ruota e così andammo da un ciclista che, a lavoro finito, si fece pagare la somma di lire 1.500 dai due militari. Ma quando i poliziotti se ne furono andati il ciclista mi chiese ancora mille lire, perché, mi disse, la ruota costava di più e che per non inimicarsi la polizia aveva fatto loro uno sconto.
Naturalmente la mia risposta fu negativa e non accettai che la ruota sostituita fosse di marca inferiore.
Prima di andarsene i poliziotti mi avevano fatto delle minacce anche se velate: “Signorina non si faccia trovare mai senza campanello o senza fanalino posteriore, perché le faremo la multa!”. Io ero tranquilla, la mia bicicletta era nuova!
Gli anni poi sono passati. Avere la bicicletta non era più così importante e indispensabile, il sogno italiano di una macchina per ogni famiglia sembrava realizzarsi, i mezzi pubblici cominciarono ad essere più efficienti. Eravamo negli anni del grande sviluppo economico.
La bicicletta, un tempo così importante, era rimasta abbandonata in cantina. Fu così che la regalai a mio fratello che abitava a Pontedera al quale sarebbe servita per spostarsi fra casa e negozio.
Nel 1966 l’Arno sommerse Pontedera e l’acqua invase le strade e i piani bassi delle abitazioni. Mio marito restò bloccato a casa di mio fratello e dalla finestra videro arrivare l’acqua del fiume impetuosa, come fosse un torrente.
Si precipitarono al terrazzo per vedere meglio e a quel punto mio marito vide la bicicletta, che mio fratello aveva lasciato appoggiata fuori di casa, trascinata via dalla furia delle acque.
Qui finisce la storia della mia bicicletta e vi assicuro che quanto ho scritto corrisponde a verità.
L’archivio diaristico nazionale aspetta i diari di tutti quelli che hanno voglia di raccontarsi e condividere con gli altri i pensieri, le emozioni della propria vita. Per saperne di più, visitate l’Archivio!