Le lezioni della crisi (prima parte)

19 Aprile 2009 di Luca Spoldi
Re Riccardo
Categoria: Diritto | 1 Commento

La “madre di tutte le crisi” (almeno del XXI secolo) come momento focale di uno spostamento dell’asse della bilancia del potere  mondiale dall’Occidente, e in particolare dagli Stati Uniti, all’Asia, in particolare la Cina? E’ un’interpretazione che in queste settimane si è rapidamente diffusa e che tra qualche anno o decennio gli storici dell’economia ci diranno se sarà stata corretta o prematura. Quel che è certo è che al momento le risposte alla crisi non paiono contenere quelle novità che potrebbero portare ad un nuovo modello di sviluppo e ad una differenze ripartizione del potere economico e politico mondiale.

Riassumiamo i fatti e cerchiamo di trarre qualche conclusione: mercati sono crollati perché dopo anni di espansione basata unicamente sui consumi, di incremento a livelli astronomici delle leve finanziarie, di azzeramento del risparmio privato e pubblico negli Stati Uniti, semplicemente quella che era ormai divenuta una bolla speculativa è implosa sotto il suo stesso peso (espresso in triliardi di dollari di mutui non più ripagati, derivati crollati di valore, immobili rimasti invenduti per mesi dopo la messa all’asta per pignoramento).

In Europa il fenomeno è stato più contenuto,nella misura in cui le autorità monetarie e in parte i governi hanno rinunciato, negli anni successivi alla creazione di Eurolandia, alla crescita in favore di un parziale riequilibrio dei conti pubblici e di una ristrutturazione dei grandi gruppi privati, premesse giustamente considerate necessarie per dar vita a un’area economica e a una moneta unica in grado di non crollare come un castello di carte alla prima recessione. Ma in un’epoca dominata dall’inarrestabile tendenza alla globalizzazione economica, anche nel vecchio continente sono arrivati, sotto forma di derivati venduti dalle banche di tutti i paesi, germi della crisi che stava per mettere le radici negli Stati Uniti.

Ben diversa la situazione dell’Asia, dove il Giappone si trovava ad aver già affrontato una lunga crisi “ad L”, durata tutti gli anni Novanta, e nonostante i saldi legami con gli Stati Uniti e l’Europa ha premuto meno sull’acceleratore e conservato un certo margine di prudenza (e di risparmio). E dove, soprattutto, le “tigri” emergenti, Cina ed India in testa (molto meno dipendenti dall’andamento delle quotazioni di materie prime e prodotti petroliferi che non la Russia o il Brasile), sono andate crescendo grazie a un’autentica esplosione delle esportazioni di beni e servizi più che grazie alla domanda interna.

Ora, questi due squilibri gemelli tra l’Occidente “cicala” impegnato in una corsa senza fine a consumi sempre più elevati e l’Asia “formica” che dopo l’oro e i diamanti ha iniziato a tesaurizzare anche dollari, euro e titoli di stato, sono stati i motori della poderosa espansione di inizio secolo. Non ci sono segnali che le cose possano cambiare a breve, se non marginalmente. Certo, la Cina tenterà almeno in parte di stimolare il consumo interno (come del resto sta facendo da qualche decennio il Giappone, a lungo il primo “pericolo giallo” capace di togliere il sono agli imprenditori occidentali), certo anche l’India, come il resto dell’Estremo Oriente, ma anche la “nuova Europa” e l’America Latina, rallenteranno magari il ritmo di crescita ma miglioreranno il proprio tenore di vita e quindi importeranno maggiori quantità di prodotti e servizi occidentali.

Ma guardiamo alla reazione immediata alla crisi: i governi sono tornati, a partire dagli Stati Uniti, ad investire pesantemente nell’economia, sia nazionalizzando intermediari e aziende “troppo grandi per fallire” (almeno dopo che la cura opposta, ossia il lasciar fallire Lehman Brothers, ha prodotto effetti peggiori del male a cui si sperava di porre rimedio lasciando il mercato libero di agire), sia creando triliardi di dollari di nuovo debito pubblico per pompare liquidità nel sistema (in particolare nei bilanci delle più grandi banche mondiali). Parallelamente le aziende hanno iniziato a licenziare nel modo più massiccio dai tempi della Grande Depressione, per preservare i margini di profitto, tanto che tra l’incudine di nuove tasse future e il martello di nuovi licenziamenti immediati, il reddito disponibile degli Americani (ma non solo) è tornato ai livelli di qualche decennio or sono. (continua)

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