Euro o son desto?
L’altro giorno mia sorella, in viva voce al telefono insieme a qualche sua amica, mi ha chiesto se nell’ipotesi (peraltro remota, ndr), di uscita dell’Italia dall’euro sia meglio essere indebitati o avere crediti oggi in euro. Bella domanda che solo ad una matta comemia sorella poteva venire in mente. In realtà questo è il tema che un po’ tutti ci stiamo ponendo. Cosa potrebbe capitare se l’Italia fosse costretta ad uscire dall’euro?
Ne ho parlato un po’ con qualche amico e le ipotesi sono sostanzialmente due: la prima è una soluzione in continuità con Gregorio XIII (quello del calendario), che un bel giorno promulgò una legge che stabilì che il 5 ottobre 1582 in realtà doveva intendersi come il 15 ottobre 1582. Il governo Monti o chi per lui propone al Parlamento che approva il cambio notturno (o più probabilmente durante un week end) da euro a lira ad un certo cambio fisso di tutto quello che fin lì era denominato in euro. Stipendi, contratti, debiti, crediti, conti correnti dei cittadini italiani dall’indomani non vengono computati in euro, ma in lire.
La seconda è una soluzione in continuità con quanto avvenne per il famigerato Ecu, tale per cui si abbandonò il cambio fisso, ma tutto rimase denominato nella valuta in cui era. Qui si cambierebbero durante il week end fisicamente gli euro in lire, i conti correntiprobabilmente verrebbero anche essi ridenominati in lire, ma il resto rimarrebbe in euro, salvo diversa comune volontà di debitori e creditori. I nuovi negozi giuridici sarebbero stipulati e regolati in lire, sempre salvo diversa e comune volontà delle parti.
E in questi due scenari cosa converrebbe fare oggi: fare debiti o fare crediti in euro?
Certamente dopo quel diluvio gli stipendi e le merci sarebbero pagati in lire o perché vale la prima soluzione o perché nella seconda il datore di lavoro eccepirebbe la clausola generale di intervenuta eccessiva onerosità, avendo le vendite (nuovi negozi giuridici) denominate in lire e non potendo sopportare di avere i costi in euro (che evidentemente si rivaluterà). E a quel punto è chiaro che non converrebbe affatto contrarre oggi debiti in euro se la fuoriuscita avvenisse attraverso il meccanismo nr 2.
Teniamo presente che l’eventuale lira dovrebbe evidentemente essere quotata a sconto (cioè valere meno) rispetto all’attuale valore del dollaro americano, che come noto oggi a sua volta è trattato a sconto rispetto all’attuale euro. Per noi lo scossone sarebbe quindi largo di più del venti percento circa (in peggio) in una notte o week end.
Che fare? Evidentemente niente, a meno che uno non abbia la possibilità di prendere i propri soldi e trasferirli in una qualche banca tedesca (o svizzera), che poi è quello che stanno facendo da un po’ di tempo i nostri amici greci e stanno iniziando a fare gli spagnoli.
Discusso per amore fraterno questa ipotesi, resta il fatto noto a chiunque abbia studiato anche solo macroeconomia che una valuta necessita del coordinamento (stretto coordinamento) tra politica monetaria (oggi in mano alla Bce) e politica fiscale (oggi in mano a ciascun stato). Dato che questo stretto coordinamento non c’è, l’escamotage è stato quello di creare fittiziamente una valuta per ciascun paese dell’Unione a seconda che chi la usa sia cittadino italiano o tedesco o francese.
Questo escamotage ha permesso di violare l’assunto a fondamento della definizione di moneta, che vuole la stessa come uno strumento deputato a trasferire valore nel tempo in maniera uniforme per tutti coloro che ne fanno uso.
I dollari americani non hanno un tasso di interesse diverso tra un ricco americano e un ricco giapponese, né tra un ricco americano e un povero americano, se non per pochi centesimi di punto. Qui invece, stante che la moneto unica nei fatti non c’è più, si è creato e si sta difendendo questo assurdo di una cosa nominalmente uguale, ma strutturalmente diversa.
I ricchi italiani se si indebitano pagano il denaro, come noto, cinque volte quello che lo pagherebbe un loro simile tedesco. Questa differenza prescinde quindi dalla ragione vera del credito del singolo debitore, come se essere italiano significasse avere sulle proprie spalle, per legge, una parte più o meno cospicua del debito nazionale.
E’ evidente che non è così: lo stato italiano e chi lo finanzia ha questi problemi, ma i comuni cittadini che sempre più scappano dall’acquisto di titoli di stato italiani non hanno e non meritano questa iattura. Allo stesso modo non dovrebbero avere questo trattamento le aziende che hanno all’estero la maggior parte della propria catena del valore. E invece no, tutti insieme appassionatamente.
Perché? Perché il sistema finanziario europeo non esiste. Quante banche straniere vedete nelle vostre strade? Due: Bnl, francese e Barclays, inglese (in verità ne esistono diverse altre, come Deutsche Bank o Cariparma e Friuladria, a loro volta ormai francesi, ma il discorso cambia di poco, ndr).
Il denaro comune gira ben sorvegliato e, di conseguenza, sotto il vincolo e il gravame del debito pubblico italiano, come se fosse, legalmente parlando, tutto impegnato a garanzia di quel debito. Alle banche tedesche è vietato trasferire fondi a quelle italiane, se non al tasso del debito pubblico italiano. Tedeschi in primis, ma tutti gli altri dietro, non vogliono che gli euro delle vecchietta tedesca finiscano a finanziare neanche la più virtuosa delle aziende italiane. Ad ognuno il suo.
E allora teniamo in piedi questa grande finta della valuta unica e speriamo che passi la nottata e i nostri beneamati politici si convincano che truccare i conti non conviene a nessuno, mentre converrebbe a tutti mettere insieme il poco che ognuno ha: le entrate fiscali dei paesi europei devono avere una regia unica, a cui evidentemente deve far di contro un unico prestatore di ultima istanza.