Scioperi e debiti!

17 Giugno 2012 di Manuela Tagliani
Lady Marian
Categoria: Arte e Cultura | Commenta

Le difficoltà del primo dopoguerra, gli scioperi, i debiti e il coraggio di una donna contadina che affronta i problemi con determinazione caparbia e anticonformista. “Una sera chiesi: “Come facciamo a fare sciopero che poi la nostra parte di prodotti va in malora? Chi ci pagherà i danni? Il proprietario anche senza prodotti può resistere a lungo, ma noi contadini di che cosa vivremo?” Il sindacalista che doveva rispondermi indugiava…”

di Margherita Ianelli

 

La fattoria comprendeva otto fondi quasi tutti allineati in cima alla collina. Le case erano state ristrutturate dopo i danni provocati dalla guerra ed erano abitate da famiglie con otto-dieci componenti ciascuna. Capii presto che quei contadini erano tutti presi dalla lotta per un domani migliore. Su quelle colline la produzione comprendeva grano, altre qualità di cereali e formaggio. Perciò nei mesi invernali non si lavorava più di tanto. Le donne filavano, cucivano, sistemavano la casa e poi andavano a lavorare nei campi che era faticoso per via del terreno in pendenza.

Il proprietario, che abitava accanto alla nostra casa, seguiva con interesse l’andamento della stalla e diceva: “Un bravo contadino si riconosce da come accudisce le bestie”. Quando veniva da noi, vedeva sempre me lavorare nella stalla e un giorno mi fece capire che avrebbe preferito un uomo al mio posto. Io gli dissi: “Caro il mio proprietario, lei è uno che non vede di buon occhio le donne che fanno certi lavori e avrà le sue buone ragioni. Ma nel mio caso deve aspettare un po’ di mesi e poi confrontare questa con le stalle degli altri contadini, mi saprà dire la differenza”.

La differenza ci fu a mio favore. Il proprietario cominciò ad avere stima di me, non solo perché sapevo governare le bestie ma anche perché anche negli altri lavori non ero da meno degli uomini. Un giorno disse a mio marito: “Avete sposato un paio di buoi, mica una donna!”

Ma mio marito a quelle parole neanche si scomponeva. Di nuovo si lasciava trascinare dagli amici e da tutti gli altri contadini che ogni settimana facevano una riunione con il sindacato. A volte partecipavo anch’io, credevo che trattassero problemi riguardanti noi contadini, invece parlavano sempre della Russia. Dicevano che in quel Paese usavano attrezzature meccaniche per lavorare la terra, che tutti percepivano lo stesso stipendio e che tutti potevano studiare a spese dello Stato. Così se anche noi volevamo raggiungere il benessere di quel Paese, dovevamo lottare per abbattere il capitalismo e la terra sarebbe diventata di proprietà di chi lavorava.

A quelle riunioni i sindacalisti ci incitavano a fare sciopero. Dicevano che dovevamo farlo quando i lavori incalzavano in modo che il proprietario subisse un danno maggiore e fosse costretto a cedere la terra a noi contadini. Una sera chiesi: “Come facciamo a fare sciopero che poi la nostra parte di prodotti va in malora? Chi ci pagherà i danni? Il proprietario anche senza prodotti può resistere a lungo, ma noi contadini di che cosa vivremo?” Il sindacalista che doveva rispondermi indugiava e intanto gli altri presenti dicevano: “Cosa vuoi sapere tu di come andranno le cose, noi dobbiamo fidarci di loro che ci indicano come impostare la lotta”. Poi uno cambiò discorso e iniziò a insultarmi perché andavo in chiesa. Disse che la chiesa era frequentata da donnette insignificanti e che nel giro di vent’anni quelle credenze sarebbero scomparse perché la gente sarebbe stata meno ignorante.

Da quella volta quando mi trovavo fra loro il discorso cadeva sempre su chi andava e chi non andava in chiesa, fra quelle scienze io ero l’unica ad andarci perciò ero diventata il pane dei loro discorsi. Non andai più alle riunioni, continuavo per la mia strada in silenzio ma non serviva, ogni volta che mi incontravano per strada mi calunniavano. Io sentivo che non potevo privarmi di un qualcosa che faceva parte di me e che volevo mi fosse al fianco nel mio cammino. Sentivo anche il dovere di trasmetterlo ai figli che portavo con me in chiesa. Loro capivano che la gente mi derideva e a me dispiaceva, avevo paura che perdessero fiducia in me.

Durante l’estate, nel periodo dei grandi lavori, gli scioperi e le incomprensioni con il proprietario non mancarono. Poi una mattina ci alzammo che il fienile del proprietario era in fiamme, si fece appena in tempo a salvare le bestie.

Il proprietario chiese ai contadini se potevano tenergli provvisoriamente le mucche ma nessuno accettò. Quando lo chiese a me dissi di sì senza consultare nessuno. Non l’avessi mai fatto! Mi ritrovai tutti contro, anche i familiari. Dicevano che non dovevo stare dalla parte dei capitalisti e che avevo ancora idee fasciste. Il proprietario capì la situazione e decise di vendere subito tutte le bestie. Le ricomprò qualche mese dopo quando il fienile fu rifatto.

Si arrivò al periodo della trebbia e, fra gli scioperi e la scarsa partecipazione al lavoro, il raccolto non fu abbondante. Mancava il denaro per pagare le spese, pagava sempre il proprietario e ogni contadino si era indebitato con lui, anche noi.

Il secondo anno fu ancora peggiore, gli scioperi continuavano e io dissi a mio marito: “Se andiamo avanti in questo modo, ci indebiteremo fino al collo e ci ritroveremo in miseria”. Alle mie parole sembrava convincersi ma poi bastava che parlasse con gli altri contadini per cambiare idea. Insisteva che dovevamo lottare per un domani migliore, una volta mi disse persino che quando l’avremmo raggiunto, quel domani migliore, mi avrebbe pisciato negli occhi.

Ma un bel momento dissi: “Basta!” Avevamo falciato tanto fieno e venne l’ordine di scioperare. Sciopero un giorno, sciopero due giorni, il terzo giorno venne la pioggia che durò tre giorni. Il fieno marcì, non era buono neanche come lettiera. Andai da mio marito e dissi: “Vedi il sole che quasi tocca l’orizzonte? Bene, quando sarà tramontato io non sarò più in questa casa. Me ne andrò con i miei figli, piuttosto vado a chiedere la carità che stare con uno come te che non mi dà mai retta. Ho sposato te o una squadra di imbecilli?”. Lui impallidì poi disse: “Mica sarai matta a fare una cosa del genere?”. “Matto sei tu che non mi ascolti mai” risposi. “Se vuoi che non me ne vada facciamo un patto: d’ora in poi non sciopereremo quando ci sono i prodotti da raccogliere. Usa la tua testa, per marcia che sia non lo sarà mai come quella di chi cerca di confonderti.” Mio marito accettò l’accordo.

Il debito con il proprietario era notevole. Che strazio e che rabbia! Per il mio modo di pensare se avessimo badato di più ai nostri interessi quel debito non ci sarebbe stato. Io che avevo sempre lavorato dovevo caricarmi anche di quel fardello. Ma si tirava avanti.

Dopo la discussione con mio marito, io lavoravo anche se era sciopero, anche se era inverno e quasi nessuno andava nei campi. Incitavo mio marito a venire anche lui a fare i lavori, invece la gente cominciò a dirgli che a lavorare non si era mai arricchito nessuno e lui ci credeva e si perdeva in chiacchiere con questo e con quello. Quanta pazienza! Quante volte tornavo a casa dai campi per governare le bestie e lui era ancora lì a chiacchierare, si capiva che gli altri lo facevano apposta per fargli perdere tempo. Una volta lui mi disse:”Di’ bene a tua moglie che anzichè lavorare in questa stagione farebbe meglio a grattarsi fra le gambe”.

Ma quando fu il tempo dei grandi lavori io avevo già tolto la zizzania fra il grano, che perciò cresceva con le sue belle spighe ondeggianti al vento mentre nei campi degli altri contadini neanche si capiva se c’era erba o grano.

 

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