Perchè dire sì ai referendum sull’acqua

11 Giugno 2011 di Luca Spoldi
Will il Rosso
Categoria: Ambiente ed Energia | Commenta

Robinhood.it vuole essere, secondo l’idea del suo ideatore e promotore, Diego Pastorino (già fondatore di Soldionline.it, la prima grande community online italiana dedicata a tematiche economico-finanziarie che sfiorò la quotazione in borsa agli inizi del 2001, prima di attraversare varie peripezie che portarono i soci fondatori a uscire uno alla volta), uno spazio libero in cui parlare di temi d’interesse comune, dall’economia all’arte, dalla cultura alla tecnologia, senza vincoli legati ad un’appartenenza “politica” o ad interessi economici (dell’editore o dei suoi inserzionisti pubblicitari). Robinhood.it vuole insomma essere una sorta di “giornale che ha come solo padrone il lettore e non come solo lettore il padrone”, per parafrasare la recente definizione che un giornalista italiano (Marco Travaglio) ha dato di una testata concorrente a quella per cui scrive lui.

Bene, per rispettare questo spirito oggi vi parlerò di cosa vuol dire votare “Sì” ai referendum sull’acqua cercando di offrire un quadro imparziale rispetto a una vicenda che definire ingarbugliata è fare un complimento. Punto primo, sul quale concordiamo con amici “liberisti” e certamente non “di sinistra” come Mario Seminerio: ogni servizio, ogni bene, ogni risorsa scarsa ha un costo (proprio perché scarso, ossia non infinito), rappresentato da una tariffa che può essere pubblica o privata a seconda di chi tale servizio/risorsa/bene possiede e/o gestisce. Allo stato attuale anche l’acqua, come il gas, la telefonia e altri servizi “universali” è sottoposta a un processo di privatizzazione sulla base di quanto deciso in sede europea. L’ingresso dei privati è ritenuto potenzialmente positivo rispetto ad una situazione deficitaria nella maggior parte dei casi e dei paesi. Luce, acqua, gas, telefono e via discorrendo costano non poco al contribuente e rischiano di costare sempre di più se non si apriranno (realmente) i mercati.

Fin qui tutto giusto e tutto bello (secondo il mio punto di vista naturalmente), ma… ma in Italia sappiamo fin troppo bene che al settore pubblico si additano demagogicamente tutte le colpe mentre altrettanto demagogicamente al settore privato si attribuiscono tutte le virtù. Salvo magari puntualmente scaricare oneri sulle spalle del settore pubblico e tenere tutti i benefici (utili) nelle mani di un piccolo gruppo di imprenditori privati. Così non è strano né scorretto che agenzie di rating come Fitch, Standard & Poor’s o Moody’s spieghino che in caso di vittoria dei “sì” nei referendum sull’acqua il primo effetto sarebbe un peggioramento del merito di credito di quelli operatori, come Acea o Acquedotto Pugliese, che già hanno emesso prestiti obbligazionari per finanziare il proprio operato.

Né possono essere tacciate come “di parte” le osservazioni dell’Istituto Bruno Leoni riguardo il rischio che una vittoria dei “sì” possa comportare se non una ripubblicizzazione del settore (improbabile proprio perché andrebbe contro il comune volere sancito in sede europea) almeno il rischio di future regolamentazioni penalizzanti per gli operatori privati, che sarebbero dunque meno attratti dal settore. E meno attori, pubblici o privati che siano, partecipano a un mercato, più rapidamente un mercato diventa inefficiente tramutandosi in un oligopolio di qualche tipo.

Ciò premesso, occorre tuttavia ricordare come non stiamo facendo discorsi sulla Luna, ma in Italia. L’Italia è un paese dove tende a crescere la percezione del divario esistente tra un numero ristretto di ricchi e un numero vasto di poco abbienti (se siete curiosi di conoscere la soglia di povertà assoluta l’Istat vi dà una mano qui: http://www.istat.it/societa/poverta Nel 2009, ultimo anno disponibile, l’incidenza della povertà relativa è pari al 10,8%, mentre quella della povertà assoluta risulta del 4,7%, entrambe stabili rispetto al 2008, ma in crescita per le famiglie operaie e del Centro e Sud, mentre appare in calo per le famiglie del Nord e quelle il cui capofamiglia è un lavoratore autonomo). Esiste dunque certamente una richiesta di servizi pubblici o sottoposti a un controllo pubblico, che continuino a mantenere la caratteristica di servizio “universale” (ossia che venga fornito a tutti coloro che lo richiedono).

E qui casca l’asino: le esperienze sinora fatte in tema di privatizzazioni sembrano aver portato ad un trasferimento di ricchezza dal settore pubblico a quello privato, senza tutelare il servizio “universale” delle attività concesse ai privati. Che in molti casi non hanno rispettato gli impegni presi in termini di investimenti, di qualità del servizio, di occupazione. I casi di Autostrade, Alitalia, ma anche di Telecom Italia oEnel sono lì a dimostrare quanto un “controllore” pubblico fin troppo distratto da interessi di bottega possa fare danni, non riuscendo né a vendere al meglio pezzi del proprio patrimonio (per i quali ha sostenuto nei decenni precedenti dei costi) né a far rispettare gli impegni formalmente assunti al momento del trasferimento di proprietà o gestione del bene/servizio di pubblica utilità (e persino neppure a gestire al meglio servizi offerti in concorrenza ai privati, come nel caso della Rai…).

Riassumendo: per l’acqua come per altri servizi il problema non è il privato e neppure il 7% di rendimento del capitale (che rappresenta una stima, certamente migliorabile e da sottoporre a puntuale riscontro anno per anno, del costo del capitale stesso), restando o tornando pubblica il servizio idrico non smetterebbe di costare (il che visto come sono mediamente indebitati nell’ordine stato, regioni, provincie e comuni italiani tutti, potrebbe porre qualche problema specie quando si dovrà mettere mano al rifacimento delle infrastrutture), eppure il privato spaventa a ragion veduta. Prima di concedere servizi pubblici in gestione a imprese private occorrerebbe pensare a sistemi di valutazione sia del valore di quel che si concede, sia dei costi e dei benefici che comporta la gestione di quel bene o servizio. E preparare sistemi di controllo efficienti.

A quel punto ben venga il privato e una maggiore concorrenza tra diversi operatori che non potrà che migliorare il rapporto qualità/prezzo. Farlo prima significherebbe solo correre il rischio di scoprire ex post l’ennesimo giro di telefonate tra gli esponenti di questa o quella “cricca” pronti a festeggiare per la ricca torta da spartire, in barba ad utenti, consumatori e contribuenti italiani tutti. Poi forse tutto questo discorso richiederebbe che a qualcuno importasse ancora il “bene comune”, la “gestione efficiente” delle risorse pubbliche (così come avviene per quelle private), che si decidesse quali beni e servizi sono strategici ed è giusto restino in mano pubblica (ossia vengano sovvenzionati dalle nostre tasse) e quali no, che il fisco imponesse tasse eque e controlli implacabili che riducessero quanto più vicino a zero ogni forma di evasione, che qualcuno a livello centrale e periferico si prendesse la briga di spiegare il perché e il per come di ogni decisione di politica economica ai cittadini itailani. Ma questo richiederebbe una rivoluzione, o forse più semplicemente una politica culturale. Ne parleremo la prossima volta, quale che sia l’esito referendario.

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