Facebook: l’ennesima bolla della Rete

4 Agosto 2012 di Mauro Lattuada
Robin Hood
Categoria: Sherweb / Tecnologia | Commenta

In teoria gente come noi alle bolle Internet dovrebbe essere abituata, e non stupirsi più di niente. Invece ci divertiamo sempre, a constatare che le bolle non finiscono mai. Siamo tutti col dito puntato su Mark, “shoccati” dalle perdite causate finora a chi ha sottoscritto l’Ipo di Facebook (il cui titolo è passato dai 38 dollari del collocamento ai circa 21 dollari attuali, cauasndo una perdita di 349 milioni di franchi svizzeri al gruppo Ubs che ha accusato il Nasdaq di “approssimativa gestione“), senza aver fatto caso alla presunte “truffe” che hanno coinvolto Groupon e tante altre piccole realtà internet. Ma pensando a qualche anno fa di casi analoghi ne possiamo ricordare decine, quando i piccoli provider si inventavano promozioni come “domini gratis per tutti” pur di accalappiare centinaia di clienti a pochi giorni dalla quotazione in borsa. Salvo poi ricordare ai propri nuovi utenti, poche settimane dopo la quotazione, che il dominio era sì gratis, ma ti dovevi comprare da loro lo spazio web per hostarne i contenuti. Nel frattempo le loro azioni erano cresciute a dismisura, il gradimento dei loro utilizzatori un po’ meno.

I casi si possono suddividere in “fatti ad arte” (come, secondo le mia personale opinione, nell’esempio di Groupon), o in casualmente prevedibili, come nell’esempio di Facebook. Il vero problema è che, soprattutto in Italia, il livello di crescita dell’innovazione si è platealmente fermato dal 2005. Più o meno da allora si è passati da un mercato propositivo, dove realtà come Virgilio e Tiscali gareggiavano ad inventare idee nuove e nuove aree di mercato (si pensi al web fax di Tiscali, proposta di un dipendente geek trasformato in gruppo di lavoro e nel primo web fax via Mail Italiano free, che ha fatto da apripista nel settore), ad uno in cui tutti si copiano, si scimmiottano e cercano di riproporre un poco meglio quello che qualcuno ha inventato e magari non ha potuto sufficientemente finanziare per farlo diventare una killer app. Questo ci porta ad essere quasi totalmente dipendenti da prodotti esteri, come lo stesso Facebook, e a non vedere mai qualcosa di nuovo ed interessante.

La colpa, io credeo, sta in fattori che fanno la differenza con l’America, dove il capitale di rischio è detassato, fatto non banale che ha contribuito a far sì che gli investitori italiani siano molto più prudenti ed accorti. Sentiamo costantemente parlare di startup innovative e progetti mirabolanti, molto meno sovente vediamo le stesse realtà (che magari hanno anche sostenuto pubblicamente di “poter fare il pelo” a colossi come Google) diventare ciò che raccontavano nel business plan. L’industrializzazione di una fascia di prodotti, che ormai vengono inscatolati ed immessi come cloni di prodotti analoghi (magari esteri) replicati e ridisegnati in Italiano, ha creato grandi gruppi che giocano a carte usando un mazzo fatto di newco, partecipate, partecipanti e partecipatori. Le stesse aziende vengono vendute e rivendute a valori differenti, magari all’interno dello stesso gruppo, svuotandole economicamente e sotto il profilo delle idee, decretandone una rapida fine. Questo approcio porta a perdere velocemente competitività, know how e capacità di produrre cose nuove.

La linea che viene applicata alle piccole realtà è che prima ci devono mettere l’idea, se è buona fare gratis una demo per dimostrare che funziona, su queste fondamenta l’investitore investe 100.000 euro rilevando il 70% del progetto. Tradotto: nella peggiore delle ipotesi il piccolo programmatore (o imprenditore di se stesso) mirerà a portarsi a casa 30.000 euro, di cui 15.000 andranno allo stato e 5.000 in costi, e solo a quel punto capirà di aver lavorato gratis o quasi. Facebook è una cartina di tornasole di questo stato di cose: un mercato sfiduciato, prudente e demotivato ha creduto poco al progetto, ha investito il minimo indispensabile (forse meno) e ha raccolto meno di quanto non sperasse di raccogliere.

Gary Hamel, nel suo “The future of management“, ipotizza e prova con casi concreti come nel 2012 dovrebbero essere costruite e fatte funzionare le aziende che vogliono stare sul mercato: abbandonare i vecchi dogmi, ripartire in maniera verticale i gudagni per garantirsi che la base sia più motivata del vertice a far sì che l’anno successivo raddoppino, invertire il meccanismo di controllo avendo manager pungolati e giudicati dai dipendenti, puntare sull’innovazione, la creatività, le nuove tecnologie ed i brevetti di ciò che di nuovo si è inventato, avere la capacità di riadattarsi al mercato, di cambiare velocemente velocità e marcia durante la corsa. Questi alcuni ingredienti della ricetta Hamel, gustosa ed alla base di “piccole aziende”, come Google, Goretex, Ford…

Insomma, le cose che dovrebbero cambiare sono molte, ma finchè vivremo in un mercato dove se sei amico di qualcuno che conta passa davanti agli altri il meglio che ci possiamo aspettare è che l’Agenda Digitale la vedremo nel 2020, mentre attendiamo di sapere il (reale) destino della banda larga, che ha mosso interessi di Metroweb e molti altri.

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